di Enrico Arlandini
Ogni
minimo particolare di quella maledetta giornata lo tormentava
incessantemente, scavando un profondo solco tra la vita precedente e
la vaga sembianza che ne era rimasta.
Sapeva quanto gli anziani potessero diventare brontoloni
o addirittura perfidi, quando non riuscivano a venire a patti con
l’oltraggio che la senilità opera sul corpo e sulla mente,
arrivando a odiare chi nella giovinezza naviga radioso.
Mai avrebbe creduto che la malvagità potesse arrivare a
tanto, senza alcuna motivazione plausibile.
Dall'iniziale sconcerto la sua bocca si era contratta
in una smorfia preoccupata, quando la vecchia aveva incominciato a
utilizzare un linguaggio composto di suoni gutturali, trasfigurata
nei lineamenti. In quegli istanti non riuscì a ribattere, lo sguardo
fisso sulle pupille dilatate della megera.
A un certo punto lei si afflosciò a terra, come un
palloncino sgonfio.
L’interruzione del contatto visivo riportò Federico
al controllo delle facoltà mentali, spingendolo ad allontanarsi con
tutta la velocità che lo stato confusionale gli permetteva.
Ebbe il coraggio di voltarsi quando ormai era lontano;
attribuì all'eccessiva distanza qualcosa che non poteva essere
reale.
Marta Vasselli era inginocchiata a terra, le braccia
piegate nel tentativo di rialzarsi.
Lo sforzo non era sufficiente a giustificare il notevole
gonfiore che le tendeva l’epidermide, rilassandola quindi di colpo.
Esattamente lo stesso disturbo di cui iniziò a soffrire
lui nei giorni successivi. Un mattino la madre corse alla porta del
bagno, sentendolo urlare disperato.Federico rifiutò di aprire, steso
a terra e coperto del suo stesso sangue, ferito a causa del pugno con
cui aveva frantumato lo specchio. Trasportato d’urgenza al vicino
ospedale, venne subito bendato, per evitare sguardi impietosi e
disgustati.
Imbottito di sedativi manteneva un costante sguardo
apatico, dritto verso un punto indefinito della parete di fronte.
All'inizio amici e conoscenti si recarono a fargli
visita ma non ci volle molto prima che l’imbarazzo e la
superstizione avessero la meglio. Rimasero così i soli genitori a
condividere la disperazione di un ragazzo il cui involucro corporeo
assomigliava a quello delle mummie estratte da antichi sarcofaghi.
Schiere di luminari dissertavano sulle possibili
spiegazioni, giungendo all'ipotesi di una temibile malattia
degenerativa ancora sconosciuta alla scienza.
Decisero di concedere un momento di lucidità al
paziente, sperando che le sue parole potessero essere di aiuto nel
dipanare la matassa. I genitori erano contrari, certi che questa
soluzione avrebbe provocato al figlio ulteriori sofferenze e la piena
consapevolezza della propria mostruosità.
Alla fine, dopo molte insistenze, cedettero.
Gli infermieri seguivano distrattamente le immagini sul
monitor, che inquadrava il letto di Federico.
Attraverso le candide bende spiccavano gli occhi
intelligenti, non più annacquati dal liquido anestetizzante.
L’ultimo pettegolezzo su una collega distrasse del
tutto gli infermieri, che abbandonarono la postazione.
Nello stesso istante, quasi si fosse accorto di non
essere controllato, Federico si sollevò con notevole sforzo.
Una volta seduto fissò l’apparecchiatura dalla quale
fuoriuscivano dei tubicini, collegati al suo corpo tramite aghi
sottili. Li strappò ad uno ad uno, senza emettere alcun gemito.
Un segnale di allarme perforò la stanza, facendo
accorrere il personale ospedaliero.
Troppo tardi per rimediare, in tempo per veder scivolare
una lacrima lungo le bende che ricoprivano il volto di Federico.
Anche questo racconto mi era piaciuto molto, sia come tema che come scrittura. Complimenti anche a lui!
RispondiEliminaHello nnice post
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