di Giulia Stefanini
Lo
scricchiolio delle foglie secche sotto i suoi passi, veloci per
fuggire a un destino che gli stava addosso come se lui fosse l’unico,
iniziava a infastidirlo.
Dovette
fermarsi per non gridare, quei rumori del bosco che un tempo lo
avevano cullato nei lunghi giorni d’estate, ora risvegliavano in
lui un forte odio.
Odio
che si colorava di rosso vermiglio ogni volta che il vento soffiava
tra i rami delle querce, gli stessi su cui amava dondolarsi.
Si
prese la testa tra le mani, cadde in ginocchio nel fango. Fermo.
Immobile. Solo il suo pensiero era in movimento:
“Cosa
farò adesso?”
Queste
parole lo tormentavano, non lo lasciavano più riposare, vorticavano
nella sua testa uccidendo tutto il resto.
Sentiva
la sua umanità soccombere, svanire come l’ombra di ciò che era.
Il
dolore fu improvviso e lancinante.
Portò
le mani alle tempie, ferendosi.
Dove
prima c’era pelle poco abbronzata dal sole, ora spuntavano due
corna appuntite, rosse come l’odio che lo divorava dentro.
Doveva
vederle.
Inciampando
su tronchi caduti e radici cercò di raggiungere lo specchio d’acqua
che divideva in due il boschetto.
Con
il fiato in sospeso, per ciò che lo aspettava, chiese alle gambe un
ultimo sforzo.
S’inginocchiò
e prese l’acqua tra le mani, senza aprire gli occhi.
Lasciò
che la freschezza del liquido lo portasse lontano e si immerse nei
ricordi di ciò che era stato.
Una
voce iniziò a ronzargli in testa, era profonda e roca:
“Ormai
sei mio .. non opporti! Non senti il desiderio di carne crescerti
dentro, dal pozzo senza fine del tuo stomaco?”
Una
fragorosa risata gli travolse la mente, gli tolse il respiro e lo
costrinse a sentire il vuoto nello stomaco.
Aveva
fame.
Sentì
la necessità di cibarsi di tenera e succosa carne umana, l’essere
che stava diventando né aveva necessità.
La
poca volontà rimastagli lo costrinse a prendere atto di ciò che
sarebbe stato: un demone.
Un
mostro assetato di sangue.
La
mano si allungò ad afferrare il pugnale che teneva sempre con sé.
Senza
piangere, gridare, pensare, se lo impiantò nel petto dividendo a
metà il cuore, spaccato in due come la sua natura.
Strisciando
arrivò al lago, questa volta guardò il suo riflesso:
la
pelle rossa più del sole stonava con il biancore dei suoi denti, le
corna appuntite ripiegate su se stesse rischiavano di ferirlo.
E
capì di aver compiuto l’unico gesto possibile.
Si
accosciò a terra esternando il dolore con una fragorosa risata.
Grazie per averlo pubblicato..:)
RispondiEliminaGrazie a te di aver partecipato e complimenti per il racconto.
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