martedì 11 giugno 2013

03 Racconto: Contest "Una pagina per un libro"

di Giulia Stefanini

Lo scricchiolio delle foglie secche sotto i suoi passi, veloci per fuggire a un destino che gli stava addosso come se lui fosse l’unico, iniziava a infastidirlo.
Dovette fermarsi per non gridare, quei rumori del bosco che un tempo lo avevano cullato nei lunghi giorni d’estate, ora risvegliavano in lui un forte odio.
Odio che si colorava di rosso vermiglio ogni volta che il vento soffiava tra i rami delle querce, gli stessi su cui amava dondolarsi.
Si prese la testa tra le mani, cadde in ginocchio nel fango. Fermo. Immobile. Solo il suo pensiero era in movimento:

Cosa farò adesso?”

Queste parole lo tormentavano, non lo lasciavano più riposare, vorticavano nella sua testa uccidendo tutto il resto.
Sentiva la sua umanità soccombere, svanire come l’ombra di ciò che era.
Il dolore fu improvviso e lancinante.
Portò le mani alle tempie, ferendosi.
Dove prima c’era pelle poco abbronzata dal sole, ora spuntavano due corna appuntite, rosse come l’odio che lo divorava dentro.
Doveva vederle.
Inciampando su tronchi caduti e radici cercò di raggiungere lo specchio d’acqua che divideva in due il boschetto.
Con il fiato in sospeso, per ciò che lo aspettava, chiese alle gambe un ultimo sforzo.

S’inginocchiò e prese l’acqua tra le mani, senza aprire gli occhi.
Lasciò che la freschezza del liquido lo portasse lontano e si immerse nei ricordi di ciò che era stato.
Una voce iniziò a ronzargli in testa, era profonda e roca:

Ormai sei mio .. non opporti! Non senti il desiderio di carne crescerti dentro, dal pozzo senza fine del tuo stomaco?”

Una fragorosa risata gli travolse la mente, gli tolse il respiro e lo costrinse a sentire il vuoto nello stomaco.
Aveva fame.
Sentì la necessità di cibarsi di tenera e succosa carne umana, l’essere che stava diventando né aveva necessità.
La poca volontà rimastagli lo costrinse a prendere atto di ciò che sarebbe stato: un demone.
Un mostro assetato di sangue.
La mano si allungò ad afferrare il pugnale che teneva sempre con sé.
Senza piangere, gridare, pensare, se lo impiantò nel petto dividendo a metà il cuore, spaccato in due come la sua natura.
Strisciando arrivò al lago, questa volta guardò il suo riflesso:
la pelle rossa più del sole stonava con il biancore dei suoi denti, le corna appuntite ripiegate su se stesse rischiavano di ferirlo.
E capì di aver compiuto l’unico gesto possibile.
Si accosciò a terra esternando il dolore con una fragorosa risata.

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